giovedì 17 maggio 2012

Un calcio all’omofobia


Barak Obama (che ha appena espresso la sua posizione favorevole al matrimonio gay) alla fine è riuscito ad abolire la consuetudine tutta puritana e molto ipocrita del don’t ask don’t tell(pressappoco traducibile con: io non te lo chiedo e tu non dirlo), che di fatto impediva agli omosessuali dichiarati di entrare a far parte dell’esercito e costringeva quelli non dichiarati a una vita militare identica a quella civile, cioè costretta al silenzio sul proprio orientamento affettivo. Una vittoria, per un paese come gli Stati Uniti che saranno pure un baluardo della democrazia ma sui diritti civili della minoranza glbt scontano ancora l’influenza della follia religiosa sulla politica.
Qui in Italia, invece, il don’t ask don’t tell resta di moda (per il vizio che abbiamo di copiare solo il peggio di quello che viene da oltre oceano), e anzi viene celebrato pubblicamente, seppure in un altro ambito: quello sportivo, il calcio per la precisione. In effetti, i due mondi – lo sport e la vita militare – presentano alcune similitudini, quanto a miti e luoghi comuni sulla virilità dei partecipanti al gioco (del calcio e della guerra): è roba da maschi, non sono ammesse distrazioni di alcun tipo. Nel calcio poi, noi italiani abbiamo pure un’aggravante: la minaccia del tifo (più teppismo che tifo, in verità) organizzato che si produce da sempre in manifestazioni di intolleranza e odio razziale da manuale. Ne sanno qualcosa i giocatori di colore, pure se di nazionalità italiana, da Matteo Ferrari a Mario Balotelli.
Figuriamoci se in questo contesto un calciatore dovesse confessare la sua omosessualità: che succederebbe? Questa non è una scusante per Cesare Prandelli, selezionatore della Nazionale di calcio in procinto di partire per gli europei; che si disputeranno, tra l’altro, in un paese – la Polonia – dove l’omofobia è sempre stata di casa.
Tutti abbiamo letto nei giorni scorsi – nell’imminenza della giornata mondiale contro l’omofobia del prossimo 17 maggio – le anticipazioni sulla sua prefazione al libro di Alessandro Cecchi Paone e Flavio Pagano, Il campione innamorato, nella quale il tecnico di Orzinuovi invitava i calciatori gay – che evidentemente esistono, a dispetto di quello che sosteneva il precedente selezionatore della Nazionale, Marcello Lippi – a fare coming out. L’affermazione di Prandelli non è stata sufficientemente valutata e sottolineata dai media: è sorprendente non tanto per la sostanza del suo discorso, quanto per le parole usate, degne di uno statista illuminato che il mondo della politica non vede più da molto tempo: «L’omofobia è razzismo, è indispensabile fare un passo ulteriore per tutelare tutti gli aspetti dell’autodeterminazione degli individui, sportivi compresi [...] Dobbiamo tutti impegnarci per una cultura dello sport che rispetti l’individuo in ogni manifestazione della sua verità e della sua libertà». Chapeau. Quanti, in qualsiasi ambito, hanno finora avuto il coraggio di sottolineare con tanta chiarezza che l’omofobia è razzismo?
Perle ai porci, però, quelle di Prandelli: uno dei giocatori simbolo del nostro campionato (supponiamo anche a nome di tanti altri che non si sono esposti), Antonio Di Natale, ha spolverato e riproposto i consueti argomenti della propaganda puritana e ipocrita che ben conosciamo: «Mi chiedo: come potrebbero reagire i tifosi? Mica possiamo prevedere le reazioni di tutti. [...] Il nostro mondo, sotto certi punti di vista, è molto complesso». Chapeau anche per lui: un giovane atleta che fa il paio con vecchi politici come Carlo Giovanardi, tutti assillati dal terrore che la saponetta cada per terra sotto la doccia. Ma è davvero impossibile per uno sportivo dichiararsi pubblicamente, o quanto meno non fingere e a eventuale domanda (ask) rispondere (tell), invece che fare collezione di veline e show girls per confondere le acque?
Anche in questo caso dipende dalla latitudine, o meglio, dalla cultura dominante. Il progetto You can play vede alcuni famosi giocatori e tecnici di un gioco maschio come l’hockey su ghiaccio impegnati in una campagna a sostegno dei giocatori gay, e quindi della lotta contro la discriminazione delle persone glbt; Sacha Harding, stella del rugby, ha invitato gli atleti gay a fare coming out – «Le uniche persone che contano capiranno comunque, la vita è troppo breve per preoccuparsi di cosa pensa la gente… Bisogna fare quello che rende felici», ha dichiarato – così come da tempo aveva già fatto un’altra star del rugby, Ben Cohen, che ha fondato una associazione per la difesa dei diritti delle persone glbt ed è partito per il Ben Cohen Acceptance Tour negli gli Stati Uniti, organizzando cene ed eventi con le squadre di rugby per diffondere un messaggio di tolleranza nei confronti della diversità sessuale, raccogliendo anche fondi per le organizzazioni che si battono per i diritti omosessuali. Nel mondo del calcio, il giocatore del Bayern Monaco Mario Gomezaveva invitato i calciatori omosessuali ad uscire allo scoperto («Giocherebbero con maggiore liberta’. Essere gay non e’ un tabu’ da tanto tempo»), così come il portiere Manuel Neuer («Quelli quelli che sono gay dovrebbero dirlo. Si solleva un peso. Credo che i tifosi si riprenderanno rapidamente dello shock iniziale. Ciò che conta è il rendimento espresso dal giocatore, non le sue preferenze sessuali»). Nel 2011 sette sportivi – di cui solo due dichiaratamente gay – hanno posato per la copertina di un magazine olandese sostenendo la necessità per gli atleti omosessuali di uscire allo scoperto. In particolare il pilota di auto da corsa Mike Verschuur ha sostenuto che «molti colleghi piloti, senza far nomi, mi hanno detto che sono gay. Ma non osano dirlo in pubblico, trovo sia un vero peccato. Poiché non vi è nulla da temere. Al contrario, mi ha solo reso più forte ed un pilota migliore». Anton Hysen, svedese, tra i pochi calciatori al mondo ad aver fatto pubblicamente il suo coming out, ha addirittura offerto la sua consulenza ai colleghi che vorrebbero fare altrettanto: «Non c’è niente di cui aver paura… sei gay, non è una grande cosa. La gente pensa che io mi senta una celebrità ma finché posso offrire un aiuto per parlare apertamente, farò tutto quello che posso. Se c’è qualcuno ha paura di uscire fuori, mi faccia pure una chiamata».
Nei paesi civili, anche le società di calcio si muovono alla lotta contro l’omofobia: il mese scorso ilBorussia Dortmund ha privato della possibilità di entrare allo stadio un gruppo di tifosi che aveva esposto uno striscione ritenuto offensivo verso i gay, e lo stesso è accaduto poco prima in Inghilterra, dove alcuni giocatori – tra i quali l’italiano del Manchester United Federico Macheda – sono stati multati per aver scritto frasi offensive sulle loro pagine dei social networks. Ma è proprio la Football Association che si impegna in prima persona, con la campagna Opening Doors and Joining In presentata a febbraio nello stadio di Wembley: «Vogliamo fare in modo che se un giocatore vuole esprimere apertamente la propria sessualità, allora possono farlo con il pieno sostegno di The FA. Vogliamo una cultura “So What?” (sono gay: e allora?) nel calcio».
In altri tempi tutto questo non sarebbe potuto succedere, anzi; vale la pena di ricordare la storia diJustin Fashanu, primo calciatore professionista a dichiararsi apertamente gay, nell’Inghilterra degli anni Ottanta. Fashanu pagò la sua “ingenuità” nel dichiararsi subendo l’ostilità di tutto il mondo del calcio, a partire dal suo coach nel Nottingham Forest football team, Brian Clough, che successivamente nella sua autobiografia si pentì di non aver saputo sostenere psicologicamente il suo giocatore. La vita di Fashanu, nel frattempo emigrato negli States, finì tragicamente, col suicidio, dopo aver subito l’onta di un’accusa per violenza carnale, poi ritrattata dalla vittima rivelatasi un prostituto.
Tornando in Italia: Cesare Prandelli ha dimostrato che anche lo sport, come il business, può funzionare come veicolo di informazione e progresso civile, a volerlo. Tutto, insomma, fuorché la politica, che dovrebbe essere l’istituzione deputata a farlo.
Già pubblicato qui.

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