lunedì 3 settembre 2012

Dell'altruismo degli atei - Un dibattito necessario



L'esperienza sociale umana è stata sempre caratterizzata da una forte impronta prima spirituale e poi religiosa, che ha avuto - e in parte ancora ha - un peso determinante nella formazione delle culture e del pensiero. In un contesto simile, quella dei pensatori liberi, in buona parte non credenti, è una vita non facile, che li costringe a cercare spazio e legittimità in continuazione per la loro etica. Il fiorire e prosperare di una lunga serie di luoghi comuni, poi, ha complicato ulteriormente le cose. Quella dell'altruismo, ad esempio, è una delle questioni principali: il pensiero diffuso è che i credenti siano più altruisti e caritatevoli dei non credenti, se non altro per ragioni "contrattuali" (la carità è uno dei cardini - praticamente un obbligo - delle religioni organizzate), mentre i non credenti, non avendo stipulato un simile "contratto" con la divinità, non hanno quest'obbligo e - anzi - sono propensi all'egoismo gaudente. Luoghi comuni, appunto.

Negli Stati Uniti si sta sviluppando un interessante dibattito sul tema; interessante malgrado si debba tener conto della diversità culturale tra le due sponde dell'oceano, e visto anche che al di là dell'Atlantico la "carità" ha un'impronta prevalentemente privata, e offre persino vantaggi fiscali non trascurabili a chi la fa. Fatta la tara, crediamo che il dibattito si possa riprendere e sviluppare anche nel vecchio continente; e in particolare in Italia, in assoluto lo stato europeo dalla politica più confessionale, a dispetto della sua Costituzione. L'Uaar, Unione atei e agnostici razionalisti, che sta monitorando il dibattito, ha riportato i dati di uno studio (tra i tanti) di Arthur Brooks (professore di economia aziendale e politica governativa all'Università di Syracuse) sulla generosità dei non credenti, nel quale il postulato è che «quando si allarga lo spettro dell'indagine per includere attività di beneficenza che vadano al di là delle donazioni in danaro, l'idea che le persone religiose siano più generose di quelle non religiose comincia a vacillare»; questo, in un contesto tipicamente anglosassone, dove storicamente è mancata l'influenza (l'invadenza?) di una Chiesa onnipresente come quella cattolica, e dove si è educati fin da piccoli ad organizzarsi per raccogliere fondi per qualunque causa.

Di questi giorni, invece, è la proposta della blogger americana Jen McCreight, che vuole «migliorare il movimento ateo», e che ha lanciato e sviluppato l'ateismo+: una forma di ateismo militante che è «una sintesi di giustizia sociale nel New Atheism» (l'ateismo scientista di Dawkins e Dennet), ovvero «il tentativo di creare un movimento che dia la priorità a istanze di eguaglianza, facendolo da un'esplicita prospettiva non religiosa», nel quale l'ateo si impegna attivamente a combattere le diseguaglianze sociali, includendo «tutti coloro (e sono tanti) che preferiscono al momento restare fuori da un impegno attivo nelle associazioni atee».

Ogni analisi rispettabile ha bisogno di prospettive complessive (sguardo da lontano) e dettagliate (sguardo da vicino). Al di là dell'importanza dell'uso delle parole (in questo caso forse "laico" sarebbe un termine più adatto di "ateo", visto che l'ateismocomprende una moltitudine di visioni differenti, tante quanti sono gli atei, mentre gli agnostici non vengono nemmeno citati), della collocazione geografica degli interessati al dibattito, e della metodologia d'indagine sull'attivismo di credenti e non credenti, di cosa parliamo: di trovare "qualcosa da fare" agli atei, ora che sono in crescita conclamata e in numero non più trascurabile, come se fossero stati fino a oggi a girarsi i pollici? Oppure di stabilire se sono inferiori ai credenti e capaci di carità? Si tratta di verificare le qualità (spontaneità, sincerità, motivazioni) dell'altruismo degli uni e degli altri, oppure di tentare di occupare - almeno in parte - uno spazio prima esclusivo dei credenti?

Se si vuole discutere seriamente bisogna subito sgombrare il campo da ogni equivoco possibile. Il dibattito americano - visto da qui - è in parte viziato: cerca di presentare una scena fatta di gruppi separati di persone (atei contro credenti), mentre la realtà è che ogni tratto del carattere dei singoli prescinde dall'appartenenza a un gruppo e dalle preferenze e credenze (o non credenze) personali. Dunque, l'ateismo+ e forse un'altra manifestazione di quel bisogno di alcuni atei di dimostrare di non essere inferiori ai credenti? Anche a livello psicologico: è altruismo puro o ricerca di gratificazione personale (ma questo riguarda anche i credenti)? Davvero l'ateo - in quanto ateo - ha bisogno della legittimazione del credente, e della società che questi domina? O piuttosto deve - alla sua coscienza di cittadino - solamente assumersi la responsabilità di partecipare al corretto funzionamento della democrazia che abita, anche negli aspetti meno piacevoli?

Pure sui termini bisognerebbe capirsi: volontariato, carità, in che senso vanno intesi, nel concreto? Lanciare una monetina a un accattone? Mettere il banchetto per raccogliere firme o fondi in favore di questa o quella causa? E l'attivismo per le cause 'alte', tipo la difesa della Costituzione o dei diritti civili, che tipo di impegno è? La McCreight (che a dire il vero è anche piuttosto critica nei confronti dei movimenti ateisti del suo paese) traccia dei confini precisi: la giustizia sociale, i diritti delle donne, combattere il razzismo, l'omofobia e la transfobia, usare il pensiero critico e lo scetticismo; ma il campo d'azione è molto più ampio.
Anche una volta stabilito l'oggetto del dibattito, la sensazione è che si rischia di prodursi in un giochetto inutile, come quello che cantava Giorgio Gaber (cos'è di destra e cosa di sinistra), su cosa sia laico/ateo e cosa invece religioso/confessionale. La stessa Uaar, la più grande associazione di atei italiana, non ritiene che «fare "volontariato sociale ateo" sia una strada da seguire per migliorare l'immagine degli atei: sarebbe un po' farlo per secondi fini. E' tuttavia vero che c'è un urgente bisogno, in Italia, di mostrare come una parte probabilmente maggioritaria del volontariato "vero", quello che non vive soltanto grazie ai contributi pubblici, sia aliena da ogni influenza religiosa». Facendo attenzione anche a non mutuare dal confessionalismo la propensione al proselitismo selvaggio che lo caratterizza.



Prendiamo l'emarginazione come terreno di confronto: tenendo sempre a mente che c'è una larga fascia di questa emarginazione che sussiste per cause non puramente economiche (come il disagio mentale, le conseguenze delle tossicodipendenze, eccetera), lo sguardo da lontano implica che ci debba essere una tensione ideale, quella verso uno stato sociale che abbia già dentro di sé strumenti efficaci per includere gli emarginati e disagiati in automatico. Oppure - ancora prima - di andare verso una società che non produca dei soggetti o categorie deboli, ovvero che crei e mantenga le condizioni per cui non esista emarginazione, povertà, bisogno. Lo sguardo da vicino, invece, dovrà ammettere che (se vogliamo evitare generalizzazioni maldestre), non sussistendo l'utopia della società perfetta di cui sopra, l'attivismo confessionale, comunque sia motivato, svolge nel complesso un ruolo importante, malgrado la sottotraccia di proselitismo e il parassitismo economico che incorpora, e che è connaturato nelle politiche cattoliche, in ogni settore, e che non di rado presenta la carità come ricatto sociale.

Va detto inoltre che sussiste una sorta di inerzia e apatia culturale per cui gran parte dell'opinione pubblica ritiene che le iniziative caritatevoli siano "naturalmente" appannaggio degli ambienti confessionali, e questo vale anche per molti atei.

Detto questo, è pacifico che nemmeno in questo settore i credenti abbiano l'esclusiva. Bisogna superare i luoghi comuni anche qui: credenti e non credenti già sono 'mischiati' nelle associazioni come nelle singole iniziative, e raramente si preoccupano delle etichette.
Per quanto riguarda le associazioni e i movimenti, indubbiamente quelle confessionali (la Caritas su tutte) godono del privilegio non trascurabile della grancassa mediatica quotidiana, ma sul territorio sono diffuse molte realtà che non hanno nulla - o quasi - a che fare con la religione, e sono efficaci almeno in egual misura. Una di queste è la milanese Cena dell'Amicizia onlus, nata nel 1968 in una parrocchia della zona Città studi, quando «un gruppo di amici si ferma di fronte a una panchina e invita a cena un "barbone"». In 44 anni, seguendo tappe importanti che l'hanno vista aprire centri di accoglienza diurni e notturni, maschili e femminili, e mettere a disposizione dei suoi "ospiti" degli appartamenti protetti, la 'Cena' è diventata un punto di riferimento importante per la lotta alla grave emarginazione sociale nel capoluogo lombardo. Massimo Acanfora, Responsabile Comunicazione e Ufficio stampa di quella che, nel suo statuto, si definisce associazione 'apartitica e aconfessionale', parla a Cronache Laiche: «In parte le nostre attività sono in convenzione con gli enti pubblici, dall'altra abbiamo creato - come quasi tutte le associazioni - una figura che si occupa di raccolta fondi da privati, aziende, fondazioni. Il nostro bilancio è intorno ai 4-500mila euro all'anno. Accogliamo oltre 30 persone in case di accoglienza, oltre alle attività che trovate sul nostro sito». L'associazione si è avvalsa per molti anni, oltre che di un buon numero di volontari (nella foto sopra alcuni di loro, durante la Giornata del volontario, che sarà replicata il prossimo 30 settembre), dei giovani che svolgevano il servizio civile alternativo a quello militare, i cosiddetti "obiettori di coscienza". «Purtroppo ora non abbiamo più convenzioni con il ministero, anche per i "tagli" al Servizio civile e il ridottissimo numero di ragazzi e ragazze che possono fare questa scelta». In ogni modo, tra i volontari «non chiediamo a nessuno se è credente o no. Né valutiamo in nessun modo il suo impegno con riguardo a questa sua scelta personale. Direi che non c'è nessuna differenza» tra gli uni e gli altri. «Collaboriamo con molte associazioni religiose in modo più o meno proficuo, a seconda della loro professionalità o meno, non tanto della loro natura confessionale. Lo stesso vale per gli enti non confessionali». Inoltre, «Siamo in continuo contatto con Comune di Milano, Asl e servizi sociali: i progetti con le persone senza dimora sono realizzati in collaborazione con loro nel 90% dei casi».
Tra l'altro, è da rilevare che raramente le istituzioni cattoliche si danno tanto da fare per protestare contro i tagli allo stato sociale e alle sovvenzioni alle associazioni di volontariato, così come si sgolano un giorno si e l'altro pure contro i matrimoni gay; per dirne una, su quelle che sono le loro priorità.

In conclusione: se c'è una chiara differenza di approccio all'impegno sociale tra laicità/ateismo e confessionalismo, forse non è utile né indispensabile che l'uno invada il campo dell'altro per motivi di 'controllo del territorio'. E non è nemmeno necessario trovare nuovi nomi per l'ateismo. Invece, è indispensabile, anzi, urgente insistere e seguitare a denunciare l'assenza colpevole delle istituzioni, combattere quel mostro che è la cosiddetta "sussidiarietà", malinteso (e principio, peraltro, tradito proprio dal governo dei cattolici di Mario Monti) con il quale queste ultime si scrollano di dosso la responsabilità di occuparsi del benessere collettivo, e - se non bastasse - tolgono ai cittadini la facoltà di scegliere liberamente se e come fare la "carità" coi propri soldi e secondo le proprie inclinazioni. Nonché, enorme fonte di sperpero costituito dalle regalìe pubbliche a vantaggio del clero, che - come detto - usando fin troppo spesso la carità come pretesto o come ricatto, se ne avvantaggia grandemente per fini non sempre caritatevoli.

Questo è decisamente un dibattito necessario.

(Si ringrazia Massimo D'Angelo per le traduzioni)

Già pubblicato qui e qui.


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