lunedì 27 dicembre 2010

Santifichiamo le feste (anche laiche)



Tra le polemiche storiche sempre in auge tra credenti e non credenti, in questo periodo dell’anno si riaffaccia quella, francamente inutile, sul rispetto delle festività religiose: se non credete, dicono i credenti, allora dovreste lavorare anche a Natale, a Pasqua e tutte le feste comandate; il che, in effetti, ha una sua logica. In realtà bisogna dividere il discorso su livelli diversi. I singoli lavoratori non hanno molte possibilità di scelta: per esempio chi, non credente, lavora in aziende che sotto le feste chiudono cosa dovrebbe fare, aprirsi una ditta individuale solo per due settimane e lavorare in proprio? E, nel caso, presso quali clienti? Invece il discorso delle festività nazionali e locali decise dalle autorità competenti è diverso, e va affrontato a livello legislativo.

Per cominciare, è evidente che ciascuno di noi ha bisogno di un opportuno riposo nell’arco della settimana lavorativa, da dedicare a se stesso, alla sua famiglia e alla sua vita sociale e per mantenere un benessere psicofisico ottimale, ed è altrettanto evidente che i turni collettivi di riposo dal lavoro devono essere stabiliti in modo tale da non ostacolare il funzionamento dell’intero sistema Paese; va anche detto che l’attuale organizzazione del calendario (figlia dei lunghi secoli della teocrazia) non può essere rivoluzionata in un istante. Tuttavia, nel frattempo potremmo avanzare una modesta proposta per contribuire a risolvere la questione.

Le aziende potrebbero – per decreto legge – raccogliere informazioni sulla adesione dei loro dipendenti a una fede piuttosto che a un’altra o a nessuna, mediante autocertificazione e successiva verifica da parte del ministero del Lavoro e delle rappresentanze sindacali aziendali o della gestione del personale; dunque, i lavoratori cristiani seguiteranno a stare a casa la domenica (anche quei lavoratori cristiani che attualmente lavorano sette giorni su sette contravvenendo al precetto della ‘santificazione delle feste’) e nelle principali festività cristiane; i lavoratori musulmani dovrebbero stare a casa il venerdì e durante il ramadan, quelli di fede ebraica il sabato, e così via. E poi, siccome Paolo di Tarso ebbe a scrivere “chi non lavora non mangi“, anche i religiosi di ogni ordine e grado si trovino una occupazione e si garantiscano uno stipendio col sudore della loro fronte (e non più con quello di tutti i contribuenti italiani).

Per quanto riguarda i lavoratori non credenti, sia pure imposto loro di lavorare il primo novembre e il 25 dicembre, fosse anche per pulire i lampadari aziendali e portare a spasso i cani dei dirigenti, ma sia consentito loro di stare a casa il 20 settembre e il 17 febbraio, giorno del martirio di Giordano Bruno.

Questa, naturalmente, è solo una provocazione, irrealizzabile e persino incostituzionale; è una risposta a quei credenti che pensano di prendere in castagna i non credenti nella loro coerenza senza mettere in gioco la propria. Tuttavia – parlando seriamente – sarebbe utile prima o poi affrontare la questione delle festività religiose ‘obbligatorie’, e sarebbe anche interessante vedere se il “governo del fare”, il governo “liberale, libertario e liberista” e del lavoro e della produttività avrebbe il coraggio di affrontarla.


già pubblicato qui.

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