lunedì 30 gennaio 2012

Matrimonio gay: il nome della cosa



Leggendo una recente intervista concessa al Quotidiano.net dal vescovo di Ragusa, mons. Paolo Urso, spicca la posizione – apparentemente – aperta di quest’ultimo sulle unioni civili, persino quelle omosessuali. Dopo aver liquidato le sempre più diffuse convivenze (specie tra i giovani) come «elemento di poca sicurezza», «paura delle responsabilità» e «disistima del matrimonio», il monsignore gentilmente concede che lo Stato laico (bontà sua) deve prendere atto della realtà e legiferare sulle unioni civili, anche omosessuali, fermo restando che la valutazione morale spetta ad altri (leggi: alla Chiesa). E a patto che siano chiamate «con un nome diverso dal matrimonio, altrimenti non ci intendiamo».

Puntuali e prevedibili sono arrivate le polemiche: i talebani di Pontifex reclamano a gran voce tutte le sanzioni del caso nei confronti dell’incauto prelato (il quale infatti farà una mezza marcia indietro dando sostanzialmente colpa dell’equivoco al giornalista del Quotidiano). Ironia della sorte: impossibile, pur mettendocela tutta, non notare che in bella evidenza nelle colonne laterali nella home page di Pontifex, uno spiritello maligno – o magari il demonio in persona – ha infilato il banner di un sito francese per incontri pour celibataires exigeants, dove uomini e donne possono ‘incontrarsi’ tra di loro, ma anche incontrare persone del loro stesso sesso!

Anche Massimo Introvigne, filosofo cattolico, fondatore del Censur (Centro Studi sulle Nuove Religioni) ed ex delegato dell’Osce per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e le discriminazioni (ruolo, come stiamo per vedere, assegnatogli non certo per meriti sul campo della lotta a tutte le discriminazioni), si è lanciato in una esibizione di intolleranza di prima grandezza: per cominciare il suo rimprovero al vescovo di Ragusa, afferma che «se si arrivasse a chiamare ‘matrimonio’ un’unione fra persone dello stesso sesso questo causerebbe seri problemi sociali». Come sempre accade, questo tipo di affermazione non viene mai seguita da una dimostrazione logica; poi, dopo aver paventato l’estrema pericolosità dell’eventuale riconoscimento delle unioni civili (anche eterosessuali) etichettate come «rischio mortale per la famiglia» (anche qui: affermazione senza dimostrazione), introduce – citando il filosofo francese Thibaud Collin – il concetto di legge del piano inclinato: «Se si apre la porta al riconoscimento di queste unioni con il nome di PACS, DICO o simili, il matrimonio è dietro l’angolo come tappa successiva». E via delirando di questo passo, in quello che è il manifesto ideologico della discriminazione di genere e dell’omofobia.

Altra è invece la musica che arriva in questi giorni da oltre oceano: meno di due anni fa, il gigante dell’informatica Google, già apertamente schierato a favore del matrimonio gay, aveva deciso di aumentare lo stipendio ai propri dipendenti omosessuali, perché questi godono di sgravi fiscali minori rispetto ai colleghi eterosessuali e sono costretti a pagare più tasse per coprire le spese sanitarie dei loro partners. Ai suoi dipendenti gay, inoltre, Google concede lo stesso numero di ore di permesso per questioni mediche o familiari.

Ora, è l’altro gigante nonché concorrente di Google, e cioè Microsoft, a schierarsi apertamente in favore dei diritti delle persone glbt. L’azienda di Bill Gates spinge affinché lo stato di Washington (dove ha sede legale) approvi una legge sui matrimoni omosessuali: «il patrimonio di Microsoft», si legge in un comunicato, «è una forza lavoro di talento e diversificata come i nostri clienti. Dal momento che altri stati riconoscono il diritto al matrimonio per tutti, gli impiegati di Washington sono svantaggiati se non possiamo offrire lo stesso ambiente, equo e inclusivo ai nostri dipendenti, al nostro personale e alle loro famiglie. Questa legge metterebbe i lavoratori di Washington sullo stesso piano di quelli degli altri sei stati che hanno già riconosciuto le relazioni stabili delle coppie dello stesso sesso. Approvare la legge farebbe bene ai nostri affari e all’economia dello Stato (…) Noi ci sforziamo di promuovere attivamente la diversità, l’equità e l’inclusione nel posto di lavoro». Cose dell’altro mondo!

Intanto in Olanda, primo paese al mondo (oltre dieci anni fa) a concedere ai suoi cittadini omosessuali la possibilità di contrarre un matrimonio civile equiparato in tutto a quello eterosessuale, il Parlamento ha varato una norma che rende passibili di denuncia per violazione della legge contro le discriminazioni quei pubblici ufficiali che, nel nome dell’obiezione di coscienza, dovessero rifiutarsi di celebrare un matrimonio gay. Sulla scia di quanto già predisposto in Irlanda, dove nella legge varata nel luglio del 2010 sul Civil partnership bill era inserita una clausola che prevede severe sanzioni per gli eventuali obiettori, incluso il carcere.

Questo succede, sia pure con lentezza e non senza difficoltà, in quei paesi dove il controllo della religione sulla vita privata dei cittadini e sulla politica non è così asfissiante come qui: come minimo se ne può parlare, in un dibattito non viziato irrimediabilmente dal pregiudizio ideologico. In un contesto simile, le consuete obiezioni al matrimonio gay (e in genere all’affermazione civile delle persone glbt) possono facilmente essere confutate, smontate pezzo per pezzo con dimostrazioni pratiche di infondatezza; e quello che resta (il fine ultimo del procedimento), tolte le sovrastrutture ideologiche e gli artifizi retorici, sarà, limpida nella sua chiarezza, la vera ragione della contrarietà: l’odio, l’intolleranza, il razzismo. E la nostalgia dell’assolutismo, essenza della religione, l’arroganza prepotente di chi si vuole imporre pur non avendo alcun titolo per farlo.

Per inciso: se il problema è quello esposto da mons. Urso, cioè quello del nome da dare all’istituto delle unioni civili e del matrimonio civile, ebbene, che si conceda alla religione il copyright della parola matrimonio (sebbene non ce l’abbia), se questo fosse utile per ottenere finalmente uno straccio di progresso civile.

Progresso che, come abbiamo già visto in altre circostanze, arriva prima se viaggia sulle ali del business, piuttosto che su quelle della politica: la casa automobilistica francese Renault starebbe per immettere nel circuito commerciale televisivo un nuovo spot, dove si reclamizza il modello Twingo sullo sfondo di un serenissimo (normale, se questa parola avesse un significato) matrimonio omosessuale. Lo spot è già visibile su YouTube: guardatelo, prima che intervenga la censura.

Già pubblicato qui.

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